La pioggia del pomeriggio del secondo giorno a Bali – che poi Bali è il nome della regione, dell'isola e dove siamo è Amed, città sul mare a nord dell'isola – la pioggia ci rinchiude nella nostra camera con bagno in stile giapponese e veranda con vista mare, ma la sedia dove siedo non guarda avanti verso il mare, ma a destra verso la miseria dell'esistenza di chi qui c'è nato. Anche loro sono in veranda, se così si può chiamare. Sono sotto una tettoia di una casa senza pareti tra macerie, galline e vecchie barche in legno ormai in disuso.
Siamo tutti bloccati dalla pioggia torrenziale del clima tropicale, il battito della pioggia sulle tegole è carico di intensità e ad interromperlo c'è quello strano gracidare che qua ho scoperto essere il verso dei gechi. Siamo nelle nostre verande, il muro che divide le abitazioni arriva al ginocchio e così i nostri sguardi si incrociano e non so cosa pensi quella donna magra a torso nudo con il seno così smunto e cadente che sembra solo un'altra delle costole che le si contano subito sotto. Non so quali siano i loro pensieri, come vedano questi sbiaditi turisti eccezionalmente alti con scarpe per diverse situazioni, occhiali per correggere il calo della vista dato da troppe ore in luoghi chiusi davanti a libri o computer. Nei miei pensieri c'è un misto di emozioni, c'è del disagio e senso di colpa per le opposte condizioni, c'è ammirazione per come nella pochezza del loro avere, abbiano tutto e nel tutto c'è la spiritualità che va oltre i piccoli cestini di legno intrecciati con offerte votive posti all'ingresso di case e negozi.
Ignoro cosa pensino ma sono
affascinati dallo straniero e non c'è solo la visione dell'uomo
bianco come bancomat ambulante, ma ci sono grandi sorrisi e chi
conosce qualcosa d'inglese ti chiede nome e provenienza e ti dice
come si chiama e fa un altro sorriso e via, e al secondo giorno
già ti sei ambientato e sai capire cosa c'è nel loro interesse.
Il primo giorno l'impatto è
stato decisamente più traumatico. Dall'Australia a Denpasar e su con
la macchina sino a Ubud alla foresta delle scimmie e ancora più su
sino ad Amed, passando nelle strade dissestate e attraversando scene
di vita quotidiana che non pensavi possibili, e smog e cani randagi e
terrazze di riso e uomini nudi a lavarsi in acque stagnanti ai
margini delle strade e degrado che quanto visto in Albania è niente
e traffico che a confronto a Napoli si gira bene e templi e clacson e
motorini e scooter da tutte le parti e colmi di cose e persone
all'inverosimile e galline e mucche e maiali e il catarro delle donne
e il catarro dei bambini e verde tutt'intorno. E il primo giorno
davanti a questo e a molto altro che a parole non si spiega, la testa
fa male perchè il cervello non regge e non sta al passo e non spiega
tutte queste immagini forti e crude che gli occhi affamati gli
sottopongono.
E le case sono difficili da
vedere, sono dietro i negozietti o sono tra la vegetazione. E queste case
sono qualcosa che va visto e la fortuna di conoscere il marito
balinese di una ragazza australiana ci porta a scoprire la vera vita,
il saper vivere di niente senza sentire la mancanza di niente. E
accettare il caffè nonostante si cerchi di evitare acqua e ghiaccio
è gesto di cortesia e è anche inevitabile e anche scoprirne la
bontà e scoprire che bollita (l'acqua) non porta diarrea. Così come il dolce
di riso nero incartato nelle foglie di pannocchia risulta speciale
nella sua povertà. Poi ci sono i succhi di frutta che aprono le
porte della percezione al vero gusto di papaia, avocado, cocco.
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