lunedì 12 agosto 2013

"Quarantotto" come diceva Pavel


Patch solleva cassette di frutta da 5, 10, 20 kg ogni giorno, Patch ha grossi polpacci e braccia muscolose, un fisico invidiabile per un sessantenne, se non fosse per una rotonda pancia alcolica.
Quando Patch guida il camion il morso inverso si nota di più e ricorda Braccio di Ferro. Soprattutto se nel frattempo sta fumando le sue sigarettine di damiana.
Patch per vedere se le tagliatelle sono cotte ne prende una e la tira contro la parete, secondo lui se si attacca è pronta, se cade dietro il forno elettrico dove non può arrivare e neanche se ne cura tanto di arrivarci, allora deve ancora cuocere. Inutile dire che dietro quella stufa ci sarà un etto di pasta al dente, a meno che non piaccia alle blatte.
Nel giardino di Patch cresce ogni sorta di pianta senza alcun senso logico e il suo metodo, seppur funzionante, mi lascia perplesso soprattutto per la puzza di frutta e verdura in putrefazione: quello che fa è limitarsi a prendere il cibo in avaria e rovesciarlo in giardino dove prima o poi rinascerà come pianta.
Dopo una decina di giorni anch'io getterò con gusto resti in punti casuali del giardino.
Dopo un mese, quando lui non ci guarderà, mentre selezioneremo i pomodorini buoni, io e lei ci tireremo pomodori marci addosso.
Patch stricia le infradito sul suolo senza alzare i piedi da terra e questo è l'unico segnale che anticipa di poco la sua comparsa, dopodichè inizia il monologo.
Quando entri nel suo giardino sei investito dalla puzza di marcio, poi il cervello fa una cosa di cui non ti accorgi nell'immediato, ma la noti a posteriori (e lo ringrazierai per questo), quello che fa è collegarsi all'input visivo e, all'approssimarsi di quel giardino, ogni volta futura, lui – il cervello – spegne l'olfatto.
A posteriori capisco anche da cosa deriva la scarsa voglia che abbiamo di dialogare con il prossimo: non dipende soltanto dal bisogno di silenzio, che comunque è innegabile, ma è anche collegato alla sua incombenza su di noi, un senso di possesso, come fossimo i suoi figli ebeti, come quando mia madre usava presentarmi ad illustri sconosciuti (per me), personaggi più o meno autorevoli che magari mi sarebbe anche piaciuto conoscere ma in una diversa situazione, non certo nell'essere introdotto da quest'eccentrica signora come il figlio che ha fatto questo e quello, come si trattasse di una situazione perpetratasi lungo questi trent'anni di presentazioni, come se ad ogni mano stretta dopo la presentazione non mi fossi mai evoluto, mentre mi evolvevo da solo, in questi trent'anni di materne presentazioni ho sempre conservato lo stesso imbarazzo e la stessa sensazione di trovarmi fuori luogo, così succede con lui, tutti ci associano a lui, sia i ragazzi in ostello nel momento di massimo splendore quando sforniamo piatti eccezionali per qualità rapportata a prezzo, sia gli uomini in paese, o ancora in ostello quando nei momenti meno gloriosi ci insegue per la cucina comune per farci mangiare quei miscugli artistici sempre al limite della sottile linea di demarcazione che separa sperimentazione innovativa da miscuglio immangiabile, o quando al mercato o nelle varie farm che gira si intromette o non ci lascia parlare affatto perchè si è convinto che abbiamo problemi con l'inglese (come se in dieci mesi qua fossimo andati aventi a gesti).

Ancora una volta mi chiedo se sia io quello strano, ma quando invita tre ragazze italiane, backpackers che lavoricchiano in paese (per poi farsi bello nei giorni a venire con gli avventori del pub per aver sfamato cotante donzelle) le tre, quando la cena non è ancora a metà, ci prendono in disparte e ci chiedono come riusciamo a convivere e di nuovo mi consolo. 

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IL SALTO DEL KOALA by FABIO MUZZI is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License.