mercoledì 27 febbraio 2013

Piani



Tra i primi viaggiatori che ho incontrato, tra quelli momentaneamente piazzati in questa casa che è un grande fratello multietnico, c’era lo chef tedesco. Il tedesco aveva un ritornello composto da tre frasi: “ciao sono uno chef” “quali sono i tuoi piani” “non ci sono abbastanza feste qui, mi mancano i rave”. L’ultima delle tre frasi probabilmente spiega come mai le sue interconnessioni non gli permettessero di formulare diverse o più complesse frasi. La prima costituisce una sorta di colloquio di lavoro non richiesto da fare con ogni persona che incontri, nella speranza di nuove offerte. La seconda, è importante, è quella su cui rifletto dal mio arrivo “what’s your plan?”.
Avere un piano ha due aspetti: da una parte ti fa sentire maturo, concreto, deciso, consapevole del tuo futuro e della strada da percorrere, dall’altra ti rende più sottoposto a stress per ogni decisione presa con la consapevolezza che dev’essere quella esatta per te, ti fa tormentare in una nazione come l’australia dove tutto appare facile, ma poi scopri tempi di attesa infiniti per formalizzare situazioni per te vitali e ti trovi in un limbo fatto di angosce. Fare piani a lungo termine è una cosa che mi piacerebbe, ma purtroppo o per fortuna, non mi trovo nella situazione di poterne fare. Mi stupisco invece di ciò che accade intorno, della diversità. C’è grande ricircolo di coinquilini, alcuni fanno una fermata, altri una sosta. Con molti di essi si instaurano rapporti che sfiorano - e a volte raggiungono - la vera amicizia. Ci si apre e si condividono gioie con quella che diventa la momentanea famiglia, delusioni e dolori si cercano di nascondere dentro, ma quando ci si conosce un po’ appaiono anche se accade involontariamente. Ci si scambiano storie, ricordi, esperienze. Si è sempre un po’ distanti, si stenta diversi giorni, ci si avvicina piano, prima che si arrivi al contatto fisico, quello sincero caloroso di un abbraccio, una pacca data con affetto. Il solo pensare a Chris mi commuove. Pensare questo ragazzo taiwanese che lavora dodici ore al giorno a spaccare e spostare pietre, che non vuole lasciare il lavoro per non gettare un’onta di fancazzismo sui suoi connazionali, che vedevo distrutto dalla fatica e che ha ritrovato il sorriso quando noi abbiamo trovato lavoro perché “sono felice che voi siete felici”. Ogni volta che qualcuno parte pensi a quanto sia assurdo aprirsi così nonostante sai che si tratti di amicizie temporanee. Eppure è così, sei fuori dai tuoi confini, sei più scoperto alle emozioni, meno riparato, più vulnerabile, più aperto all’esperienza. E poi chi sono gli altri in fondo? Gente che sa che condividerà solo poco tempo con te perché dovrebbe essere sincera in tutto, aprirsi e perché non potrebbe invece inventare una serie di balle, a partire dal nome, il suo passato, modificare il suo carattere? Ma non è così, o non sembra, tutto diventa presto chiaro, la natura umana non si snatura, il carattere non cambia, ma si modifica, si smussa o diventa più spigoloso, ma ha già una sua forma una volta che si arriva qui e i caratteri più simili stringono rapporti.
In comune abbiamo tutti un viaggio, una lontananza, un’esperienza eccezionale; di diverso il passato, l’esperienza, le culture e, quasi sempre, il piano.
C’è chi arriva con l’obiettivo di un lavoro stabile, di trovare qualcosa di inerente a ciò in cui è specializzato, che non viaggerà molto, che ha scelto una città come Perth per la ricchezza garantita dalle miniere del western australia, che cercherà di stabilirsi, mettere radici anche se non troppo profonde. C’è chi si trova qui per viaggiare, che lavora per viaggiare e arrivare alla prossima fermata dopo aver consumato buona parte del capitale e trovare un altro lavoro e ripartire. C’è chi ha un piano lungo anni, che magari è arrivato qua con la moto dall’inghilterra, ma come lui ce ne sono pochi, purtroppo. C’è chi arriva con un aggancio – in maggior parte si tratta di italiani – lavora, guadagna un po’ non si gode molto l’ambiente, sente la mancanza, non aspetta la scadenza del visto, torna. C’è chi lo chiama anno sabbatico, che è una definizione che mi piace, che racchiude tutto e niente, piani di massima, ma soggetti a mutamenti, variabili come dice sia il tempo a melbourne, forse non è l’idea generale che si ha di anni sabbatico, forse il luogo comune lo considera come un anno di ritiro fisico spirituale tipo eremita che alterna meditazione e riposo, ma anno sabbatico può anche essere staccarsi dalla precedente vita, fare lavori fisici e chiedersi se sia stato giusto studiare, tutto quel tempo sui libri per fare questi lavori, ma tutto serve, serve scoprire le proprie possibilità, acquisire consapevolezza del corpo, soffrire, e poi ancora viaggiare e chiedersi perché non si sia fatto prima, working holiday, lavoro e vacanza, fare piani di massima molto generali, aspettando tempi più stabili, pensando con il pensiero periferico a un piano più grande ma concentrandosi su oggi e domani e, a volte, tra una settimana.

giovedì 21 febbraio 2013

Spiagge-1






L’Australia, che è grande più o meno come l’Europa, conta più o meno 23 milioni di abitanti, più o meno un terzo dell’Italia. In Australia l’85% della popolazione vive a meno di 50 km dalla spiaggia (fonte cartine tally-ho). 
Meno di 50 km dalla spiaggia!
Nonostante la vicinanza alle spiagge, la scarsa densità di popolazione, rende le coste semideserte, specie se rapportate ai tristi standard italiani. Il cielo è infinito, la spiaggia sconfinata. Mancano le strutture, se per strutture si intendono le privatizzazioni di terra pubblica che coprono gran parte del perimetro dei litorali nostrani con ombrelloni, lettini, sedie e persone su persone. Qui ognuno è libero di attrezzarsi come meglio crede: vuoi l’ombra? Ti porti l’ombrellone o una tenda da mare. Vuoi stare seduto? Ti porti la sedia. Vuoi birra fresca? Ti porti un frigo portatile su cui ti puoi anche sedere. Vuoi semplicemente fare il bagno dove ti pare? Ti porti il costume e scegli il posto.
Nella zona di Perth ci sono posti più o meno frequentati da persone e, all’occasione, anche da squali. Scarborough e Cottesloe vanno sicuramente visitate, specie se ci si vuol cimentare con un po’ di surf e magari prendere qualche lezione (più facile la seconda spiaggia, più competitiva la prima). Fare surf sembra essere un buon modo per stuzzicare l’appetito dei pescecani, ma i surfisti sono di natura impavida e gli squali si spostano molto, non è detto dunque che, se avvistati un giorno, il giorno seguente ce ne siano ancora.
A spostarsi un po’ da Perth si scoprono luoghi meno noti, meno frequentati e, in alcuni casi, molto più interessanti. Del mio amore per Jhon Graham Recreation Reserve (o Woodman park) con i suoi delfini-pellicani-stellemarine-squali-pescatori ne ho già parlato a sufficienza.
Senza spostarsi troppo, tra Fremantle e il suddetto parco si trovano altri cartelli che indicano spiagge. C.Y. O’Connor si trova appena fuori la città, è una spiaggia sicuramente meno suggestiva rispetto al Woodman Park, ma ha comunque una sua ragion d’essere. Oltre al gran numero di cani, tutti perfettamente educati, che i padroni portano liberamente a fare una passeggiata e un bagno su questo tratto di oceano, la spiaggia è divisa in due dal relitto di un’antica nave affossato sotto il bagnasciuga. La poppa emerge dalla sabbia, parti del corpo dell’imbarcazione affiorano appena e la prua fuoriesce dall’acqua. Più in là nel mare affiora la statua di una testa umana su un cavallo di quella che avrebbe potuto essere la polena della nave. La sabbiosità delle varie spiagge, unita alla minaccia squali più a largo, frena il desiderio di fare snorkeling in mare aperto, ma il relitto di un’imbarcazione, con le alghe e tutto ciò che vi si attacca, è di grande attrattiva per un gran numero di pesci che si spingono a un passo dalla costa per escursioni guidate di gruppo o in solitaria, per aragoste che si incuneano tra le assi, sporadicamente per meduse che osservano il relitto dal pelo dell’acqua


mercoledì 13 febbraio 2013

You’ll never walk alone



You’ll never walk alone non è solo la frase, la canzone, che accompagna il Liverpool e i suoi tifosi. Non se la leggi fermo a un semaforo sul retro di un camioncino che fa un servizio mai visto prima, che fa porte per animali domestici. Non se sul camioncino c’è la foto di un cane di quelli che sembrano sorridere così come faceva Ringhio. Non se hai saputo due ore prima che Ringhio è stato soppresso. E allora la scritta dog doors riporta alla mente il ricordo di quando marcello ha bucato la finestra e ha fatto una dog door semplice e funzionale in legno rivestita con una coperta di lana per tamponare gli spifferi, e ringhio era lì che guardava curioso ma non capiva e allora noi lì a mettere gli ossi oltre la porticina e a infilargli la testa nel buco e lui mangiava l’osso e rimetteva la testa dentro e giù ancora finchè non ha capito. E quella costruzione sarebbe stata una delle ultime cose che avrebbe visto, perché poi la vista avrebbe preso ad oscurarsi, ma, noncurante della cecità data dal diabete, sarebbe andato avanti a testate finchè le gambe non gli hanno definitivamente ceduto, fino a non poterne più, fino a ieri, fino a ieri che è stato soppresso e io non ero con lui e io ero dall’altra parte del mondo e avrei voluto essere lì a fare forza a lucia. A rispiegargli che in fondo si deve sapere che la vita di un cane dura meno di quella di un uomo, che ci si deve preparare per tempo alla dipartita, anche se in verità non sarei stato convinto dell'esattezza quelle parole. E forse sarei stato combattuto se manifestare la tristezza con un funerale di quartiere – perché lui era il cane di tutto il quartiere – una cosa malinconicamente allegra con tutta la gente a ricordare gli episodi più strani, con un manifesto appeso al campetto che era il suo regno di conquista, o se tenerla per me per non far apparire eccessivo il dolore provato agli occhi di chi non sa e non può sapere. E invece sono qui, dall’altra parte del mondo fermo ad un semaforo a riflettere sull’incontro impossibile con quel camioncino, a ricordare.
Quando scatta il verde sono tutto bagnato di lacrime e muccolo.
L’idea del funerale mi sarebbe piaciuta, per ricordarlo attraverso le storie, attraverso tutte le avventure che viveva quotidianamente e che non mi ha mai raccontato a voce, ma la sua faccia esausta e contenta al ritorno mi faceva immaginare molto. Quelle storie conosciute attraverso le parole della gente.
Come la coppia di vecchietti che gli tirava da mangiare in strada e lui ogni giorno andava alla solita ora sotto il davanzale ad aspettare cibo che mangiava per sfizio non per fame. Andava sempre là sotto e loro erano sempre lassù. Fino a quando è morto il marito e loro quel giorno non c'erano più. E Ringhio senza chiedere il permesso a nessuno è entrato in casa e si è messo a sedere ai piedi del letto dov’era la salma, come a salutarlo. E lì è rimasto finchè la salma è stata là. Questa storia me la raccontò la moglie tempo dopo.
Come la vecchietta che mi raccontò che semplicemente l’aveva aiutata ad attraversare la strada
Come di quando è scappato di casa per qualche giorno e poi è tornato come se nulla fosse. Finchè non abbiamo incontrato una ragazza con un cane identico ma più peloso e ci ha raccontato la storia d’amore tra ringhio e la madre. La madre era un husky, abitava a un paio di quartieri di distanza, e doveva essere bellissima. Ma al di là della bellezza, ciò che lo attirava era che era in calore. E quel suo calore era bastata una folata di vento per farlo percepire al suo fiuto da segugio che era una delle razze che si erano mischiate nell’incontro generazionale di diverse specie bastarde fino a partorire questo formidabile bastardo di cane. Insomma il bastardo aveva fiutato l’aria e l’aria era densa di desiderio e lui era un bellissimo bastardo, forte, coraggioso, tenebroso, insaziabile e immagino anche romantico. E la sua voglia era incontenibile e non bastava una recinzione per trattenerlo. È così che fuori dal cancello della cagna in calore stava piazzato da due giorni questo latin lover, tanto che il padrone dell’husky chiese ad un suo dipendente di prendere questo cane abbandonato. Il dipendente viveva a 5 chilometri di distanza. Quel pomeriggio i suoi figli furono felicissimi di giocare con il nuovo cane, la mattina dopo furono abbattuti per non avere più quel cane con loro. La mattina dopo il bastard lover ancora non era da noi, ma era di nuovo là, di fronte al cancello dell’amata. Poi un giorno è tornato a casa come nulla fosse. E, sebbene nessuno in quella casa abbia mai visto ringhio entrare, qualche mese dopo c’erano otto ringhi in miniatura incrociati con un husky.
Come tutte le storie che si porta dietro con lui e che non conoscerò mai. Come tutte quelle che abbiamo vissuto insieme, come era facile capirsi.
Come quando era libero, anarchico, indipendente. Era mio amico e mio fratello.
I'll never walk alone
Come era Ringhio

sabato 9 febbraio 2013

i wish you could swim






Generalizzando - ragionando sulla teoria dei vasi comunicanti, sul fatto che tutto il mondo emerso, in fondo, è un’isola (o meglio un insieme di isole) circondata da una distesa d’acqua salata che per comodità è stata divisa secondo zone – generalizzando si potrebbe anche pensare che ogni qual volta ci si tuffa in mare si sta facendo il bagno con ogni animale che vive nell'acqua, si fa il bagno insieme agli squali, ai delfini, alle meduse, a milioni di sardine, le balene, i cavallucci marini, tutti.
Generalizzando.
In realtà, quando ci si tuffa, ci si sente in relazione soltanto con ciò che si percepisce, solo con ciò che si vede. Senza una maschera che chiarisca e ingrandisca i contorni sfocati del mare più cristallino si è soli, contornati da animali che ti osservano indifferenti, spaventati, o curiosi a seconda dell’irruenza del tuo stare sommerso.
Succede a volte che non sia necessaria una maschera per vedere l’animale con cui stai facendo il bagno, né la luce del sole, per quanto è grande.
Succede nel solito posto, nel posto che incomincio a pensare abbia qualcosa di magico, nel posto che incomincio ad odiare perché so che a breve dovrò abbandonare e che, se continua a darmi così tanto, non sarà per nulla facile. Succede al Jhon Graham Reserve, che poi ho scoperto chiamarsi anche Woodman Park sette km al sud di Freo.
Succede che quel venerdì pomeriggio non lavoravo, avevo staccato alle una e avevo voglia di birra e/o sidro e allora me ne andavo con la macchina al bottleshop vicino casa in cerca di refrigerio alcolico. Succede che lì incontro Morgan il nuovo coinquilino belga, che pur di prendere una cassa di birra si sarebbe fatto la strada a piedi, con il pesante bottino, gli offro un passaggio e ci sediamo in veranda a raccontarci le nostre storie, mentre lui per sdebitarsi del passaggio continua ad aprire birre. Succede che, parlando, viene fuori il discorso della pesca e io dico che ho due canne e che si può andare in serata. Alle quattro è ancora troppo caldo. Alle quattro sono sbronzo. Alle quattro torna Flò. Alle quattro devo dormire un po’. Alle sei si andrà. E si va, lasciando detto ad altri coinquilini di raggiungerci appena possono.
Io, Flò e Morgan, due canne già pronte, che avevo preparato osservando i pescatori intorno tempo indietro, una scatola di mangime per gatti, il mio scetticismo visti i risultati passati, l’ottimismo di Morgan che in passato aveva già pescato (facendo sempre somaro).
Il porticciolo è pieno. Ci facciamo spazio vicino a una famiglia di orientali che pescano con il nostro stesso metodo, cioè siamo noi che imitiamo loro, ovvero con una serie di piccoli ami colorati senza niente attaccato. Le mie canne sarebbero pronte ma Morgan decide di smontare il mio lavoro su una delle due e attaccare un solo amo grosso per metterci il mangime del  gatto. Nel vedere l’operazione, nel veder vanificare tutto quel lavoro, quell’osservare gli altri, quel preparare la canna con i giusti ami, mi sento mancare. Eppure sembra sapere quello che fa. Gli orientali pescano a ritmi forsennati, Morgan continua a perdere l’esca decisamente poco propensa a restare attaccata all’amo, Flò ci prova, ma sembra esserci qualcosa di sbagliato e continuiamo a restare a secco. Propongo a Morgan di tornare alla montatura originale, svuoto il mangime del gatto in acqua e i pesci arrivano anche da noi. Si tratta di sardine, una marea di sardine, o qualcosa del genere. Mentre la luce del sole si affievolisce, cambia qualcosa e iniziamo a pescare con una frequenza incredibile. Morgan è quello che ha meglio capito il metodo e tira su sardine per la bocca, ma anche per gli occhi, la pancia la coda. Sono così tante che basta dare un colpo secco. Quando intorno si fa buio, quando si accendono i due lampioni ad illuminare i pescatori troppo presi a cacciare pesci o granchi da non accorgersi del tramonto alle spalle, quando arriva il buio arrivano tre degli altri coinquilini. Si accorgono subito che qualcosa stia andando per il verso giusto dal sorriso ebete stampato sui nostri volti increduli. Anche loro vogliono provare, ma la magia sta scemando. O sta incominciando.
Mentre pescano, di fronte alla punta delle canne si materializza un delfino. Intorno c’è l’indifferenza di chi è abituato alla visione. Lui intanto nuota, spruzza, saluta, si immerge e riemerge, saluta tutti fa avanti e indietro di fronte ai pescatori, lo fa una volta, la seconda passa e mangia una sardina morta che galleggia tra le canne, inizio a fremere, penso di tuffarmi nel nero dell’acqua, tra enormi granchi che nuotano in superficie. La terza volta lo dico e Morgan e Chris approvano. Gli tiro una sarda, si avvicina per mangiarla e nel frattempo noi ci siamo svestiti, siamo sulla scaletta che porta diretti in acqua, siamo dentro, siamo a un metro dal delfino siamo quattro enormi creature sulla superficie dell’oceano a una distanza così prossima che commuove. Lui sta lì, mantiene un metro di distanza, per qualche secondo, di quei secondi che nel ricordo durano una vita.
I wish you could swim, like dolphins can swim. We can be heroes just for one day
A casa, negli occhi ancora sognanti, ci sono una cinquantina di sarde da spellare, squartare, sbudellare, decapitare. A casa la magia è finita, per ora, ma è impressa nel ricordo.



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IL SALTO DEL KOALA by FABIO MUZZI is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License.