venerdì 28 dicembre 2012

Bugs Bunny ha avuto un brutto incidente: è paralizzato ma domenica ti attende comunque



Un rituale settimanale, scoperto per caso e per curiosità può trasformarsi, già dopo la prima volta, in un’esperienza mistica imprescindibile che ha i tratti della dipendenza. Un appuntamento settimanale fisso dal quale non riesci a esimerti a meno che non  ci sia un impedimento eccezionale. È come andare a messa, per chi ci va. Come per la messa, è un appuntamento che ha luogo nel fine settimana e, come per la messa, puoi scegliere l’orario che meglio rispecchia le tue esigenze. Diversamente da chi va a messa, a meno che non sia un amante delle chiese e ogni volta ne cambi una, il posto non è mai lo stesso. Come se dovessi seguire le partita della squadra del cuore, sempre in trasferta ogni settimana in uno stadio diverso, non si ripete mai una stessa location per lo svolgimento, anche se vi sono eccezionali eccezioni che sanno di bluff. Quei cartelli buttati in mezzo alla strada, due parole scritte con un pennarello su uno scatolone e una freccia. Li noti distrattamente mentre sei seduto su un qualche autobus con cui torni a casa, o vai in qualche posto per trascorrere il weekend. Ti accorgi che è il fine settimana dalle persone assiepate nei vari parchi per fare barbeque, seguire i propri figli mentre giocano a baseball o cricket, ti accorgi del cartello perché il giorno prima non c’era, ma è troppo tardi e il cartello è già passato. Vorresti avere la macchina per fare inversione e leggere cosa c’è scritto. Più che quelle due parole, o lo scatolone buttato là quasi per sbaglio, è la freccia che stimola l’immaginazione. La freccia indica una strada interna, di quelle che gli autobus ignorano, sei destinato a rimanere con questo dubbio a meno che non ti decidi a spingere il pulsante, fermare il bus e farti una passeggiata verso l’ignoto, ma fai una rapida considerazione di costi e benefici e il gioco non vale la candela. Assorto nelle fantasie perdi di vista il panorama domenicale che l’autobus attraversa senza fretta, fuori dal vetro vedi un insieme sfocato di verde parco, blu cielo e grigio asfalto, alternarsi a sprazzi di colore a cui non dai importanza. Poi d’improvviso tutto si ferma, ti scuoti dai pensieri, torni a distinguere le sagome degli alberi, di una villetta, delle nuvole, di tre aborigeni che barcollano a piedi nudi sul marciapiede opposto, due auto che si fermano vicino al tuo finestrino. Tranne gli aborigeni tutto è immobile. Guardi avanti e vedi che non è altro che un ennesimo semaforo che ha interrotto il flusso dei tuoi pensieri e ti ha riportato alla realtà, ma ancora una volta qualcosa pizzica la tua curiosità: alla base del semaforo c’è un altro scatolone, ancora due parole e ancora una freccia. Con l’autobus fermo hai abbastanza tempo per aggirare la miopia, strizzare gli occhi e mettere a fuoco la scritta, i contorni sfocati delle parole si fanno netti e formano la scritta “garage sale”. La freccia indica una strada diversa, ma ora hai un indizio, conosci quelle due parole e, in un futuro imminente, potrai approfondire l’argomento con gli autoctoni. Garage sale non è altro che la vendita di beni da parte di un privato che nei giorni di festa invita gli estranei a rovistare nella propria vita, a spulciare le proprie passioni a cui improvvisamente ha deciso di rinunciare. Liberarsi del superfluo, una forma di riciclo, il superfluo che si scopre indispensabile per altri, per poi tornare ad essere superfluo.  I bambini sono cresciuti: svendiamo tutte le loro cose. Cambio casa, cambio vita: svendo tutto (in questo caso si parla di “massive garage sale”). Riparo bici e nel fine settimana le riparo: questo è il caso dei garage sale bluff: non sono un evento unico e irripetibile, ma sono costantemente aperti nel w-end. Non compri la macchina per seguire le frecce o per infiltrarti nella vita del prossimo, la compri per altre esigenze, ma appena ce l’hai ti trovi a contare le ore che mancano al prossimo fine settimana. E quando arriva sabato inizi a vagare tra le strade secondarie come se ti fossi perso e guidi piano come gli anziani col cappello per non perdere nessun segnale. Quando trovi il primo cartello senti salire una strana morbosa emozione, dal paese da cui provieni i garage sono i luoghi in cui sono depositate le più perverse fantasie, gli hobby temporanei e tutti sono nascosti da un telo come se costituissero il più grande segreto o sotterrati da uno strato di polvere. Qui il garage è aperto, tutto è buttato fuori alla rinfusa, eppure fai fatica ad entrare per la prima volta, in punta di piedi ti avvicini, gridi “hello”, un estraneo ti risponde “hi, going?” senza prestare attenzione alla tua risposta, lui torna ai suoi affari o resta seduto a contemplare un altro dei tanti visitatori, tu guardi un attimo in giro, hai paura di entrare in contatto con la vita degli altri e non tocchi le loro cose, ti limiti ad osservare, ringrazi, saluti, scappi.
La prima volta non è mai facile, in generale.
La volta seguente tutto è già più facile, sapere come funziona ti risparmia l’impaccio iniziale, ostenti sicurezza – cosa che dovrebbe essere del tutto naturale dato che tu sei il potenziale acquirente e lui farà di tutto per metterti a tuo agio, ma, per la storia dell’invadere la privacy altrui, non è così scontato -, tocchi le cose, le prendi in mano, chiedi i prezzi. Non è come andare a fare la spesa con lista già pronta, qui non sai cosa ti aspetta, tutto è potenzialmente utile, ma niente è indispensabile.
In uno di quei garage sale stracolmi di cose da bambini rimaste troppo piccole, trovi un trivial pursuit in inglese che reputi un ottimo acquisto per 5 dollari, un gioco che sarà utile a stringere i rapporti coi coinquilini, a migliorare l’inglese e, al contempo, a rispolverare qualche nozione di cultura generale. Solo una volta a casa scoprirai che almeno la metà delle domande trattano storia e tradizioni australiane e nessuno conosce niente a riguardo. Nello stesso garage sale trovi uno scatolone di giochi stupidi, pupazzetti, palline e varie ed eventuali, tutti “free”. Ti ci fiondi e mentre raccatti tutto il possibile pensando a come riutilizzarlo, ti accorgi che hai perso la concezione di utile e superfluo e che l’ingordigia ti sta accecando. Decidi così di lasciare un po’ di cazzate anche al prossimo tuo.
In un altro garage sale, l’anziano signore sembra avesse tentato di riprodurre una ferramenta nel proprio garage e ora, troppo anziano per distinguere gli attrezzi, debba rassegnarsi a disfarsene, prendo una pinza. Anche la casa di fianco fa un garage sale, ma non c’è niente di utile, sto per andarmene quando mi invitano ad entrare in casa: si tratta di un massive garage sale, l’occasione è un trasloco imminente in un posto molto lontano: ogni cosa ha un prezzo: coltelli, lampade, divani, letti, sedie, armadi, ciò che si trova dentro gli armadi, cose. Di utile, niente.
Sabato, domenica, domenica , sabato. Un paio, massimo tre garage sale a settimana, poi il resto del weekend a pensare a come sfruttare le cose.
Una logora cintura di pelle a cinquanta centesimi.
Altre persone, altri incontri, altri cartelli, altre frecce da seguire in una caccia al tesoro a puntate. Segui la freccia, destra, sinistra, ecco l’ennesimo. Ad attenderci non c’è una persona fisica, sul prato all’ingresso di casa c’è Bugs Bunny. Sotto il sole cocente ci guarda dalla sedia a rotelle che usa per spostarsi dopo qualche brutto incidente. Non parla. Ci guarda e ci invita ad entrare. Ritorna la paura iniziale: chi può mettere un pupazzo gigante di Bugs Bunny sopra una sedia a rotelle – pezzi in vendita separatamente o insieme – fuori dalla porta di casa, all’ingresso del garage? La situazione intriga. La donna che ci aspetta dentro è un’anziana grassona senza denti seduta su una poltrona ci parla dell’elicottero che sorvola la città, vende poche cose, videocassette, giacche da uomo, un’infinità di canne da pesca. Le giacche, le canne, la sedia a rotelle, deve aver perso da poco il marito. La stanchezza, la rassegnazione con la quale ci accoglie, ci stemperano la curiosità, le canne già le abbiamo, bugs bunny su una sedia a rotelle è un’immagine sufficiente per questo fine settimana, per oggi basta.
“Le cose che possiedi alla fine ti possiedono” diceva palahniuk e aveva ragione, eppure forse non aveva considerato i garage sale come liberazione totale dalla schiavitù.

mercoledì 26 dicembre 2012

È un forte cavallo che vola. Il suo nome è Pegasus



Il loro inglese è buono, probabilmente hanno un vocabolario più esteso del nostro, ma la paura di sbagliare li blocca e pronunciare alcune lettere gli crea enormi problemi: il pensiero comune vuole che sia la R a creargli problemi, ma vi sono altrettante difficoltà con la pronuncia della F che spesso suona come una B. Hanno nomi inglesi e tratti orientali: le due cose non vanno propriamente d’accordo. Scopro così che oltre ad aver abbandonato la loro terra, gli affetti, i parenti, i cibi speziati, hanno lasciato alle spalle anche quei loro nomi densi di significati mistici e affascinanti per adattarsi alle esigenze del posto. È così che per molti è stata l’insegnante del corso d’inglese a ribattezzarli, a scegliere un nome facile e privo di connotazioni così poetiche come sono i nomi occidentali. È così che il dolce e paffuto taiwanese il cui nome originale significa forte cavallo che vola, è stato ribattezzato Jhonny, è così che si perde la poesia, e noi quando scopriamo un tale affronto alla poetica orientale lo ribattezziamo Pegasus in un estremo tentativo di mantenere un significato che rende la sua paffuta dolcezza un po’ meno impacciata. Molti, non tutti, sono stati ribattezzati dagli insegnanti di inglese, Chris no. Chris lavora dodici ore al giorno, sveglia alle 3 di mattina a letto alle 6 di pomeriggio, è difficile incontrarlo, perché di lavoro sposta pietre a mano e quando torna sporco e con la maglia strappata è troppo stanco per parlare, mangia e va in coma come dice lui. Chris, che ama l’Italia e Michelangelo e finchè era a Taiwan lavorava in una galleria d’arte, ha scelto il proprio nome un attimo prima di partire. Nell’inventario delle cose da fare era rimasto di cambiare il nome e, probabilmente, ricordarsi di prendere lo spazzolino dopo averlo utilizzato un’ultima volta. Preso lo spazzolino, si è guardato intorno ed ha letto vari annunci pubblicitari fino a scegliere quello stampato sull’etichetta della bottiglia di latte che teneva in mano: “Chris Milk”, ovviamente ha tenuto Chris e buttato il Milk. Per pudore e per evitare di incappare in facili ironie, con Rex ho voluto evitare di entrare nell’argomento.

giovedì 20 dicembre 2012

Trenta chili e 21 grammi, il peso della Singer del ‘52



Riparare una macchina da cucire Singer del 1952 non è esattamente quello che mi sarei aspettato di dover fare una volta sbarcato in Australia. Ma qui gli schemi mentali acquisiti in anni di studi e lavoro non contano e tutto diventa possibile. È possibile che la frenesia dei ritmi di vita logori e logoranti acquisiti scivoli in secondo piano. Succede così di prendere tra le mani un oggetto mai toccato prima come può essere una macchina da cucire che ha appena compiuto sessant’anni di vita. Ma si sa, come per i cani a cui ci affezioniamo sempre troppo da non essere mai pronti alla loro scomparsa, la tecnologia corre così veloce che anche per una macchina da cucire un anno umano ne conta come sette, e con i continui progressi sempre qualcosa di più, tanto da non affezionarsi più alle cose. Così la macchina, che gentilmente il padrone di casa mi presta per donarla alla ragazza che sorride al mondo, è bella che morta (la macchina). Tra le mani ho uno splendido oggetto inanimato dal peso assurdo, con un corpo fatto interamente di legno e ferro, il peso dev’essere intorno ai trenta chili meno i 21 grammi del peso di un’anima che dev’essersi spenta serenamente, per il lavoro svolto e la cura delle mani di quelle donne che cuciono, diverso tempo fa. Ma per quanto bella, così non mi serve.
Con la curiosità dei bambini che smontano le cose e la tenacia di un dr. Frankenstein smonto i pezzi principali, cerco di intuire le dinamiche, rimetto viti dove mancano. Provo ad accendere ma il motore gira a vuoto senza che la macchina risponda. Stacco la spina e la muovo a mano e capisco le dinamiche di un ingranaggio semplice ed affascinante, come sono le auto d’epoca che ho imparato a conoscere, senza accorgermene, seguendo le riparazioni di un grande amico, nonchè del più grande meccanico di auto antiche che abbia mai conosciuto (non che ne abbia conosciuti altri oltre lui, ma sento che le sue capacità sono rare da ritrovare). Seguire le sue riparazioni era un aspetto secondario, fondamentalmente quello che facevo era dargli una mano, fargli compagnia, stappare e bere birre, sparare cazzate, aspettare che un’altra macchina fosse pronta a camminare su strada, fare un giro, salutare i passanti curiosi, sentire freddo fin nelle ossa tanto da metter giornali sotto la felpa quando i collaudi si facevano nelle fredde notti invernali. Quelle cose che si fanno tra amici.
Quindi mi trovo con questa macchina da cucire tra le mani, il pensiero che va alle auto antiche e quella consapevolezza - acquisita osservando - che le cose di una volta sono oggetti finiti, non contemplano l’elettronica che rende quelli attuali quasi infiniti e in questa loro finitezza esatta la ragione di un mancato funzionamento deve trovarsi per forza di cose al loro interno, esattamente costruito. 
Gli ingranaggi sono al loro posto, muovendo a mano la rotella che normalmente dovrebbe girare grazie al motore, il movimento stenta ma avviene. Serve il sangue: manca l’olio. Anni dimenticata in uno scantinato hanno indurito le sue giunture fino al punto che il motore che fa da cuore pompa senza avere reazioni. A questo punto è quindi sufficiente oliare gli ingranaggi, attaccare la spina e il sangue torna a circolare e la macchina risorge e prende vita. Farla poi correre non sarà immediato: il filo si spezza. Forse è messo male e dev’essere messo al contrario, come tutto qua, o forse il filo è solo troppo vecchio e va cambiato. La seconda. Ora cuce e cuce bene, se non fosse per il fatto che ogni dieci secondi salta la corrente in tutta la casa e la causa è lei e i suoi ingranaggi ossidati e i suoi fili malandati. Ripenso a quante volte ho sentito dire “sarà un contatto” per spiegare luce che va e che viene, ma alla fine non lo era mai; ma se si usa questa espressione sarà successo e probabilmente succedeva in passato. Ed ecco la parte più difficile: smontare il cavo della corrente, capire, accorciare e ripristinare, ma anche queste cose erano all’ordine del giorno con le auto d’epoca e – con mia sorpresa – riesco in breve a risolvere quello che sembra essere, finora, l’ultimo problema.
Ora, quando la sollevo, sento chiaramente che il peso è di 30 chili e 21 grammi. 

martedì 18 dicembre 2012

Il pianeta rosso e la costellazione indiana



C’è una ragazza in strada a Freo che è appena arrivata, ma sembra sia lì da sempre. Intorno al pianeta rosso del suo cuscino, che usa per attutire la durezza del mondo, gravita una costellazione di personaggi, artisti di strada, venditori, gente che si apre al suo sorriso, ricambiandolo. Lei sembra essere lì da sempre, ma se ti avvicini, dal suo inglese, capisci che è appena caduta sotto l’ombra di quella pianta su cui si arrampicano bimbi scimmia, o sotto l’ombra delle verande dei ristoranti cinesi dove i genitori dei bimbi scimmia pranzano o cenano; lei è sempre lì, è l’ombra che si sposta, cercandola. Proteggendola.
Il cielo blu che confina col suo pianeta rosso è un tappeto cosparso di oggetti che ricordano gli ornamenti delle donne indiane prima del matrimonio. Ma la ragazza può anche, e soprattutto, trasformare piume in orecchini, treni in collane, orche in bracciali, conchiglie in ciò che la tua fantasia segreta e bambina sogna ma non oserebbe raccontarti.
Se il tempo sta per cambiare, lei lo percepisce in anticipo e le si inceppa la F di fifteen, ma, come per il motore delle vecchie auto, basta dare due o tre colpetti e tutto riparte e come le per le vecchie auto. “Il bello contro il pratico è un atavico duello, io mi sono già schierato con lei che è così bella” cantava qualcuno.
Come se stesse lì da sempre, tutto sembra ruotarle intorno: nuovi venditori chiedono il suo consenso per sederle accanto, aborigeni e vecchi saggi indiani si chinano sino a sfiorare il suo pianeta per baciarla in segno di rispettoso saluto, un eclettico batterista in pensione per un’imprecisata turba mentale, le fa da mentore: consigliere musicale su ciò che avviene in città e sulle sue future session, da consigliere alimentare sul momento migliore per comprare al mercato: la domenica dalle 4 di pomeriggio i venditori di frutta e verdura cinesi svendono tutti i loro prodotti a un dollaro ed è un delirio di mercanti che urlano “One dolla! One dolla!”, o chi ha più fretta “dolla! dolla! dolla!”. Pedro, del market del centro, l’ha vista così wonderful e beautiful e le ha chiesto di vendere anche dei suoi oggetti dai colori e tessuti dalle fattezze nepalesi, che lui è troppo stanco e si limita a vecchie insegne americane anni ’50.
L’universo si riempie di cose, colori, forme, tradizioni, e lei è lì che veglia silenziosa come farebbe un dio creatore. La ragazza è seduta e guarda sia i lenti turisti che i frettolosi lavoratori dal basso all’alto, ma, come se si rimpiccolissero, tutti quelli che passano scendono al suo livello quando costeggiano il suo pianeta rosso e si scambiano un cenno di saluto inevitabile. Naturalmente non sono solo saluti: sono in molti che si fermano a contemplare le trame indiane, o i suoi oggetti creati a mano o quelli cuciti con meticolosa precisione passando e ripassando le proprie sottili dita sotto la mitragliatrice della sua Singer del ’52, gentilmente offerta da un italiano e riparata da un altro, entrambi ammaliati dal genuino calore del suo sorriso (uno di più).

venerdì 14 dicembre 2012

This is Freo. E morì con un felafel in mano



Fremantle è a Perth ma non è Perth. Fremantle è una vera e propria città che vive di vita propria, che ha tutto e se sei a Fremantle assai raramente avrai bisogno di andare a Perth per qualsiasi cosa. La distanza che divide la grande città dal piccolo sobborgo è nell’ordine dei 15-20 chilometri. Fremantle ha origini italiane. Alcuni raccontano che siano stati i pescatori italiani arrivati qua a metà ‘900 o qualcosa prima a fondare questa città, fonti più ufficiali fanno risalire l’origine del nome all’omonimo scopritore inglese. Al di là delle origini, e al di là che sia ritenuto un bene o un male, a Fremantle è innegabile che l’aria che si respira abbia molto di italiano. L’italiano dei pescatori che arrivarono negli anni ’50 mischiato con l’italiano degli attuali immigrati in cerca di qualsiasi lavoro per fuggire dall’italia malata, il tutto condito con spruzzate di cultura hippie, manifeste soprattutto in diete che alternano il vegetariano al vegano, in calze da uomo a righe colorate che si intravedono quando impeccabili signori si siedono ai vari bar di cappuccino strip, in capelli sfibrati da rasta, in gonne ancora lunghe e psichedelicamente sbiadite nell’apparenza ma non nei contenuto. Il legame di Fremantle con l’italia di un tempo è forte soprattutto con determinate città: forti sono le comunità di siciliani e abruzzesi provenienti in particolar modo da Vasto e Capo d’Orlando, città con cui è gemellata.
Una telefonata (seguita da un’altra in madrelingua) cambia tutto. La partenza e il viaggio rimandati, la rotta impostata da un navigatore, già eccitato per i nuovi orizzonti, reimpostata su un tragitto più breve, l’adrenalina non scende per una nuova esperienza alle porte, l’adrenalina sale per essere rimasti senza casa. E allora, di corsa.
Nuova destinazione. Colloquio. Va bene. Proviamo. A domani.
Casa. Gumtree. Annunci criterio “real estate”, criterio Fremantle + 20 km. Trovate. Rispondono in due. La prima non è troppo vicina, ma è carina, ma loro proprio non si capiscono, il discorso è strano, le camere libere sono tre, due singole e una doppia, ma in doppia c’è la tipa che ci mostra la casa, ma forse spostando il suo letto nella singola e unendo i materassi e affittando le due doppie e utilizzando questo e muovendo quello e e basta! Troppi incastri e poi ma quanto costa? Ok troppo. See ya. La casa seguente è vicinissima al lavoro. La tipa che deve mostrarcela ci accoglie da vecchi amici, ci conosciamo? Ovviamente non rammento. Ma lei mi rinfresca la mente, al tempo della scelta della prima casa ci aveva già mostrato un altro appartamento. A questa strana taiwanese chiedo se sia un’agente immobiliare, ma la volta precedente stava sostituendo un’amica, questa invece è la casa dove vive. La casa è grande, su due piani, le chiedo in quanti ci vivano, mi risponde fifteen, forse ho capito male, forse diceva five, ma no è troppo diverso, forse diceva fifty? No cinquanta è impossibile. Dev’essere veramente 15 il numero che voleva intendere. La nostra stanza è una sorta di depandance piazzata sul giardino sul retro, la camera è grande, la privacy garantita, come d’altra parte le esperienze di integrazione multiculturale. Improvvisamente ho un flashback e mi tornano alla mente immagini di “E morì con un felafel in mano” un film visto dieci anni prima. Un film che racconta le esperienze in tre diversi appartamenti australiani di uno scrittore che cerca di far pubblicare un racconto su playboy. Tre diversi appartamenti, situazioni al limite del reale, ma tutte decisamente possibili, qui.
Ok, la prendiamo.
Cinque sono taiwanesi, uno coreano, due francesi, un tedesco, uno cileno, noi due italiani e non è una barzelletta. Una stanza è ancora vuota ma, subito dopo di noi, arriveranno due spagnoli e inizierà la festa. Il padrone di casa che compare solo per riparazioni o disinfestazioni tra un inquilino che va e uno che viene, è italiano.
Cara Susan, sarò diretto, da te si sopravviveva, ma è questo quello di cui avevamo bisogno, qui c’è vita sociale, vita domestica, vita. Qui si parla qui si migliora l’inglese, qui ci si diverte e, volendo, si può anche usufruire della sala. Senza rancore, non hai colpe Susan, solo avevamo bisogno di altro e non lo sapevamo. E tra l’altro, a cinque minuti da qui abbiamo un mare fantastico.

mercoledì 12 dicembre 2012

L’elasticità



C’era una volta Perth. C’era una volta Susan (e suo fratello Arnold). C’era una volta l’autobus. C’erano, poi ho deciso che non ci sarebbero stati più. Lascio casa, lascio la città, faccio il pieno di benzina e imposto il navigatore direzione sud. Direzione farm, direzione lavoro fisico, campi, fragole, ciliegie, direzione mosche, ragni e serpenti, ma anche chilometri di strade dritte, deserto, canguri che di notte attraversano senza preavviso, spiagge incontaminate, alberi giganti, sud che qui significa più freddo o meno caldo a seconda della stagione. Salutare Susan, se non dorme salutare Arnold. Lei è in casa, lui anche ma dorme ancora, salutalo te per noi. D’improvviso lei si scioglie ed esce dal suo guscio di timidezza, ma è troppo tardi per instaurare un rapporto che renda il saluto abbastanza affettuoso. E il ricordo di una convivenza verso la quale siamo riusciti a trovare i lati positivi nonostante ce ne fossero pochi svanisce varcando la porta di casa per l’ultima volta.
Tutto cambia. Ma per cambiare ci vuole volontà, qui neanche troppa, ma un minimo ci vuole.
L’emozione della novità pervade lo spirito e rinvigorisce il corpo, una nuova destinazione da impostare, un lungo viaggio, nuovi incontri, nuove situazioni, nuovi orizzonti.
Ma.
Tutto cambia.
Quale sia la frequenza dei cambiamenti e se gli alti e bassi siano normali o si catalizzino su di me non mi è dato saperlo, ne è facile quantificarlo per farne una statistica. Fatto sta che le cose cambiano in fretta e l’alternanza di alti e bassi ha cadenza giornaliera.
Sto per accendere la macchina, quando squilla il telefono. E tutto cambia. Quello che ti insegna l’Australia, quello che impari ad essere immigrato è l’elasticità. Serve essere aperti (open-minded) e pronti ad accettare variazioni ai propri piani.
Hello? Al telefono risponde un italiano, che mi parla come se ci conoscessimo già. Pensando di averlo incontrato in giro per la città faccio finta di riconoscerlo, poi capisco che è uno di quelli a cui avevo mandato il resume (CV), ma ne ho mandati talmente tanti che proprio non so chi sia, ma sembra brutto dirglielo. Si sì certo che ho capito chi sei, ma per sicurezza mandami un sms con l’indirizzo che ci vediamo e ne parliamo. E tutto cambia


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