Qualche tempo dopo arriverà
anche uno di quei segnali che, se sei consciamente o inconsciamente
predisposto in una certa direzione, ti aiutano a perseguirla con più
convinzione. Sono piccoli segni, a volte dettagli, a volte sono
enormi, ma se non sei predisposto non li cogli neanche così, a volte
sono segnali che ti vengono dall'esterno senza che tu faccia niente e
devi soltanto codificarli, a volte risultano molto spiacevoli e in
quelle occasioni devi compiere un grande sforzo per accantonare il
negativo e riuscire a distinguerli, altre volte li stai cercando
senza aspettarti di incontrarli ma, imprevisti, appaiono.
A volte sono solo incontri.
Incontri normali o incontri surreali che sia.
Era un pomeriggio qualsiasi di
un giorno qualsiasi nella monotonia di un giorno senza lavoro a
Dimbulah. Napoli era al bar. Eravamo in casa ammazzando il lento
scorrere di quel pomeriggio. Napoli stava bevendo. Eravamo in
Australia a meno di un chilometro da Napoli ma in quel momento non ne
eravamo consapevoli. Poi le sirene. Cos'era? Ambulanza, polizia e
pompieri tutti insieme? Qui dove il treno settimanale è un evento
eccezionale, qui che quando siamo in giardino a selezionare frutta e
passa un bambino in monopattino o Gesù in carrozzella (Gesù è un
vecchio spagnolo barbuto che ormai ha imparato l'italiano e si
ritrova a chiacchierare con i vecchi italioti locali intorno al
tavolino fuori dal supermercato in vece della nostrana usanza di
ritrovarsi al bar), qui che quando succede qualcosa alziamo lo
sguardo e rimaniamo a fissare questo movimento che spezza
l'immobilità, qui dove una sirena di un'ambulanza fa voltare tutti i
paesani presenti, qui il suono di tante sirene significa qualcosa di
incredibile. Siamo usciti e dal pub/hotel del paese arrivavano strane
urla. Noi sbirciavamo, Napoli beveva. Ci siamo avvicinati con quel
fare circospetto dei curiosi che cercano di apparire come fossero lì
per caso. Le sirene, le urla venivano dal parcheggio dove erano
radunate una ventina di auto un po' d'epoca, un po' modificate, tutte
personalizzate, sicuramente strane. Dalle auto uscivano personaggi
dei cartoni animati o rotolavano fuori barcollando uomini sudati e
vistosamente ubriachi. L'evento in sé non aveva nulla di eccezionale
per chi di auto d'epoca e di uomini ubriachi ne ha visti a bizzeffe.
Più tardi, a furia di chiacchierare con personaggi dei cartoni o con
ubriachi ci è venuta sete e siamo entrati.
Al bancone c'era un omino
minuscolo in camicia a maniche corte, pantaloncini e berretto, da
dietro a prima vista sembrava un bambino, ma la pelle era vecchia e
con peli bianchi. L'omino parlava con un grosso australiano che non
pareva prestargli attenzione, l'omino nominò Napoli e io dissi
qualcosa in italiano a riguardo. L'omino si girò e iniziò a
cantare.
Avevamo trovato Napoli. L'omino
che nominò Napoli era giustappunto Napoli. Era l'unico immigrato
napoletano della zona, era arrivato con l'ondata di migranti di una
cinquantina d'anni fa. Si chiamava Quirino ma tutti lo chiamavano
Napoli. L'omino cantò in napoletano con l'aria melodrammatica dei
nativi di quella città. Poi scoppiò a piangere. Fa sempre uno
strano effetto vedere un anziano sconosciuto piangere, il cuore si
stringe e rimani in una buffa posizione di avvicinamento come se ti
stessi slanciando in abbraccio ma poi ti blocchi e pensi “lo
faccio?” e lui ti aiuta e, benchè ubriaco, cerca barlumi di
lucidità e trattiene per quanto può le lacrime. Il solo fatto di
avergli prestato attenzione lo commuove, poi si riprende, canta di
nuovo, smette, racconta la sua storia e qui le lacrime gli piovono
sulla faccia finchè non riusciamo a cambiare argomento, poi insiste
per offrirci una birra per ringraziarci per averlo ascoltato. La sua
è un'altra storia di solitudine, di profonda solitudine.
Brevemente.
Così basso di statura, ma
orgoglioso come sono i napoletani è cresciuto rissoso per difendersi
dalle offese sull'altezza, era il più piccolo di quattro figli,
quello meno ubbidiente, le tre sorelle erano più tranquille. La
situazione italiana era di estrema povertà, la povertà che spinse
migliaia di italiani a imbarcarsi in nave per altri lidi compreso il
viaggio di oltre un mese verso l'australia, questa che allora era più
che mai sconosciuta. Crescendo passò qualche tempo a Roma, poi
intorno ai vent'anni si trasferì per lavoro in Germania, in Italia
suo padre morì, lui lasciò il lavoro e tornò a Napoli, la
situazione di povertà era la stessa, qualcuno gli propose di andare
in australia, allora Napoli era un ventitreenne “senza troppa
capoccia” come ci disse, non ci pensò su, partì, lavorò nei
campi, si sposò, ebbe delle figlie, divorziò, rimase solo, iniziò
ad odiarsi (e a bere), a definirsi il più grosso degli stronzi per
aver lasciato le sue sorelle con cui tuttavia si sentiva tutti i
giorni, per aver lasciato sua madre senza più tornare, sua madre che
nel frattempo era morta così lontano da lui e, non da ultimo, per
aver lasciato Napoli. Napoli rimpiangeva di essere partito, era la
persona più pentita di questa scelta che avessi trovato in
australia, Napoli di diverso da tutti aveva che veniva da Napoli. Ora
io non so come questa città possa prenderti l'anima, Napoli (città)
non la conosco abbastanza, ma ogni volta mi sorprendo di come chi vi
nasce vi resti attaccato per sempre, mi sorprendo di questo cordone
ombelicale che non si strappa neanche a così grande distanza. Credo
che tutti gli ex italiani arrivati anni indietro, per quanto alcuni
non lo ammettano, sentano la mancanza di quanto di bello il nostro
piccolo stivale ha da offrire, se però le loro origini sono
napoletane allora non avranno problemi a riconoscerlo.
E al di là di questa
bellissima cosa che è la napoletanità che è un discorso a sé,
quelle lacrime, quella storia, quei rimpianti, quell'omino chiamato
Napoli, in quel particolare momento storico ebbero il valore di un
segno, il segno che conferma una dubbia decisione.