Un rituale settimanale, scoperto per caso e per curiosità
può trasformarsi, già dopo la prima volta, in un’esperienza mistica
imprescindibile che ha i tratti della dipendenza. Un appuntamento settimanale
fisso dal quale non riesci a esimerti a meno che non ci sia un impedimento eccezionale. È come
andare a messa, per chi ci va. Come per la messa, è un appuntamento che ha
luogo nel fine settimana e, come per la messa, puoi scegliere l’orario che meglio
rispecchia le tue esigenze. Diversamente da chi va a messa, a meno che non sia
un amante delle chiese e ogni volta ne cambi una, il posto non è mai lo stesso.
Come se dovessi seguire le partita della squadra del cuore, sempre in trasferta
ogni settimana in uno stadio diverso, non si ripete mai una stessa location per
lo svolgimento, anche se vi sono eccezionali eccezioni che sanno di bluff. Quei
cartelli buttati in mezzo alla strada, due parole scritte con un pennarello su
uno scatolone e una freccia. Li noti distrattamente mentre sei seduto su un
qualche autobus con cui torni a casa, o vai in qualche posto per trascorrere il
weekend. Ti accorgi che è il fine settimana dalle persone assiepate nei vari
parchi per fare barbeque, seguire i propri figli mentre giocano a baseball o
cricket, ti accorgi del cartello perché il giorno prima non c’era, ma è troppo
tardi e il cartello è già passato. Vorresti avere la macchina per fare
inversione e leggere cosa c’è scritto. Più che quelle due parole, o lo
scatolone buttato là quasi per sbaglio, è la freccia che stimola
l’immaginazione. La freccia indica una strada interna, di quelle che gli
autobus ignorano, sei destinato a rimanere con questo dubbio a meno che non ti
decidi a spingere il pulsante, fermare il bus e farti una passeggiata verso
l’ignoto, ma fai una rapida considerazione di costi e benefici e il gioco non
vale la candela. Assorto nelle fantasie perdi di vista il panorama domenicale
che l’autobus attraversa senza fretta, fuori dal vetro vedi un insieme sfocato
di verde parco, blu cielo e grigio asfalto, alternarsi a sprazzi di colore a
cui non dai importanza. Poi d’improvviso tutto si ferma, ti scuoti dai
pensieri, torni a distinguere le sagome degli alberi, di una villetta, delle
nuvole, di tre aborigeni che barcollano a piedi nudi sul marciapiede opposto,
due auto che si fermano vicino al tuo finestrino. Tranne gli aborigeni tutto è
immobile. Guardi avanti e vedi che non è altro che un ennesimo semaforo che ha
interrotto il flusso dei tuoi pensieri e ti ha riportato alla realtà, ma ancora
una volta qualcosa pizzica la tua curiosità: alla base del semaforo c’è un
altro scatolone, ancora due parole e ancora una freccia. Con l’autobus fermo
hai abbastanza tempo per aggirare la miopia, strizzare gli occhi e mettere a
fuoco la scritta, i contorni sfocati delle parole si fanno netti e formano la
scritta “garage sale”. La freccia indica una strada diversa, ma ora hai un
indizio, conosci quelle due parole e, in un futuro imminente, potrai
approfondire l’argomento con gli autoctoni. Garage sale non è altro che la vendita
di beni da parte di un privato che nei giorni di festa invita gli estranei a
rovistare nella propria vita, a spulciare le proprie passioni a cui
improvvisamente ha deciso di rinunciare. Liberarsi del superfluo, una forma di
riciclo, il superfluo che si scopre indispensabile per altri, per poi tornare
ad essere superfluo. I bambini sono
cresciuti: svendiamo tutte le loro cose. Cambio casa, cambio vita: svendo tutto
(in questo caso si parla di “massive garage sale”). Riparo bici e nel fine
settimana le riparo: questo è il caso dei garage sale bluff: non sono un evento
unico e irripetibile, ma sono costantemente aperti nel w-end. Non compri la
macchina per seguire le frecce o per infiltrarti nella vita del prossimo, la
compri per altre esigenze, ma appena ce l’hai ti trovi a contare le ore che
mancano al prossimo fine settimana. E quando arriva sabato inizi a vagare tra
le strade secondarie come se ti fossi perso e guidi piano come gli anziani col
cappello per non perdere nessun segnale. Quando trovi il primo cartello senti
salire una strana morbosa emozione, dal paese da cui provieni i garage sono i
luoghi in cui sono depositate le più perverse fantasie, gli hobby temporanei e
tutti sono nascosti da un telo come se costituissero il più grande segreto o sotterrati
da uno strato di polvere. Qui il garage è aperto, tutto è buttato fuori alla
rinfusa, eppure fai fatica ad entrare per la prima volta, in punta di piedi ti
avvicini, gridi “hello”, un estraneo ti risponde “hi, going?” senza prestare
attenzione alla tua risposta, lui torna ai suoi affari o resta seduto a
contemplare un altro dei tanti visitatori, tu guardi un attimo in giro, hai
paura di entrare in contatto con la vita degli altri e non tocchi le loro cose,
ti limiti ad osservare, ringrazi, saluti, scappi.
La prima volta non è mai facile, in generale.
La volta seguente tutto è già più facile, sapere come
funziona ti risparmia l’impaccio iniziale, ostenti sicurezza – cosa che
dovrebbe essere del tutto naturale dato che tu sei il potenziale acquirente e
lui farà di tutto per metterti a tuo agio, ma, per la storia dell’invadere la
privacy altrui, non è così scontato -, tocchi le cose, le prendi in mano,
chiedi i prezzi. Non è come andare a fare la spesa con lista già pronta, qui
non sai cosa ti aspetta, tutto è potenzialmente utile, ma niente è
indispensabile.
In uno di quei garage sale stracolmi di cose da bambini
rimaste troppo piccole, trovi un trivial pursuit in inglese che reputi un
ottimo acquisto per 5 dollari, un gioco che sarà utile a stringere i rapporti
coi coinquilini, a migliorare l’inglese e, al contempo, a rispolverare qualche
nozione di cultura generale. Solo una volta a casa scoprirai che almeno la metà
delle domande trattano storia e tradizioni australiane e nessuno conosce niente
a riguardo. Nello stesso garage sale trovi uno scatolone di giochi stupidi,
pupazzetti, palline e varie ed eventuali, tutti “free”. Ti ci fiondi e mentre
raccatti tutto il possibile pensando a come riutilizzarlo, ti accorgi che hai
perso la concezione di utile e superfluo e che l’ingordigia ti sta accecando.
Decidi così di lasciare un po’ di cazzate anche al prossimo tuo.
In un altro garage sale, l’anziano signore sembra avesse
tentato di riprodurre una ferramenta nel proprio garage e ora, troppo anziano
per distinguere gli attrezzi, debba rassegnarsi a disfarsene, prendo una pinza.
Anche la casa di fianco fa un garage sale, ma non c’è niente di utile, sto per
andarmene quando mi invitano ad entrare in casa: si tratta di un massive garage
sale, l’occasione è un trasloco imminente in un posto molto lontano: ogni cosa
ha un prezzo: coltelli, lampade, divani, letti, sedie, armadi, ciò che si trova
dentro gli armadi, cose. Di utile, niente.
Sabato, domenica, domenica , sabato. Un paio, massimo tre
garage sale a settimana, poi il resto del weekend a pensare a come sfruttare le
cose.
Una logora cintura di pelle a cinquanta centesimi.
Altre persone, altri incontri, altri cartelli, altre frecce
da seguire in una caccia al tesoro a puntate. Segui la freccia, destra,
sinistra, ecco l’ennesimo. Ad attenderci non c’è una persona fisica, sul prato
all’ingresso di casa c’è Bugs Bunny. Sotto il sole cocente ci guarda dalla
sedia a rotelle che usa per spostarsi dopo qualche brutto incidente. Non parla.
Ci guarda e ci invita ad entrare. Ritorna la paura iniziale: chi può mettere un
pupazzo gigante di Bugs Bunny sopra una sedia a rotelle – pezzi in vendita
separatamente o insieme – fuori dalla porta di casa, all’ingresso del garage?
La situazione intriga. La donna che ci aspetta dentro è un’anziana grassona
senza denti seduta su una poltrona ci parla dell’elicottero che sorvola la
città, vende poche cose, videocassette, giacche da uomo, un’infinità di canne
da pesca. Le giacche, le canne, la sedia a rotelle, deve aver perso da poco il
marito. La stanchezza, la rassegnazione con la quale ci accoglie, ci stemperano
la curiosità, le canne già le abbiamo, bugs bunny su una sedia a rotelle è
un’immagine sufficiente per questo fine settimana, per oggi basta.
“Le cose che possiedi alla fine ti possiedono” diceva palahniuk
e aveva ragione, eppure forse non aveva considerato i garage sale come
liberazione totale dalla schiavitù.
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