Tra i primi viaggiatori che ho incontrato, tra quelli
momentaneamente piazzati in questa casa che è un grande fratello multietnico,
c’era lo chef tedesco. Il tedesco aveva un ritornello composto da tre frasi:
“ciao sono uno chef” “quali sono i tuoi piani” “non ci sono abbastanza feste
qui, mi mancano i rave”. L’ultima delle tre frasi probabilmente spiega come mai
le sue interconnessioni non gli permettessero di formulare diverse o più
complesse frasi. La prima costituisce una sorta di colloquio di lavoro non
richiesto da fare con ogni persona che incontri, nella speranza di nuove
offerte. La seconda, è importante, è quella su cui rifletto dal mio arrivo
“what’s your plan?”.
Avere un piano ha due aspetti: da una parte ti fa sentire
maturo, concreto, deciso, consapevole del tuo futuro e della strada da
percorrere, dall’altra ti rende più sottoposto a stress per ogni decisione
presa con la consapevolezza che dev’essere quella esatta per te, ti fa
tormentare in una nazione come l’australia dove tutto appare facile, ma poi
scopri tempi di attesa infiniti per formalizzare situazioni per te vitali e ti
trovi in un limbo fatto di angosce. Fare piani a lungo termine è una cosa che
mi piacerebbe, ma purtroppo o per fortuna, non mi trovo nella situazione di
poterne fare. Mi stupisco invece di ciò che accade intorno, della diversità.
C’è grande ricircolo di coinquilini, alcuni fanno una fermata, altri una sosta.
Con molti di essi si instaurano rapporti che sfiorano - e a volte raggiungono -
la vera amicizia. Ci si apre e si condividono gioie con quella che diventa la
momentanea famiglia, delusioni e dolori si cercano di nascondere dentro, ma
quando ci si conosce un po’ appaiono anche se accade involontariamente. Ci si
scambiano storie, ricordi, esperienze. Si è sempre un po’ distanti, si stenta
diversi giorni, ci si avvicina piano, prima che si arrivi al contatto fisico,
quello sincero caloroso di un abbraccio, una pacca data con affetto. Il solo
pensare a Chris mi commuove. Pensare questo ragazzo taiwanese che lavora dodici
ore al giorno a spaccare e spostare pietre, che non vuole lasciare il lavoro
per non gettare un’onta di fancazzismo sui suoi connazionali, che vedevo
distrutto dalla fatica e che ha ritrovato il sorriso quando noi abbiamo trovato
lavoro perché “sono felice che voi siete felici”. Ogni volta che qualcuno parte
pensi a quanto sia assurdo aprirsi così nonostante sai che si tratti di
amicizie temporanee. Eppure è così, sei fuori dai tuoi confini, sei più
scoperto alle emozioni, meno riparato, più vulnerabile, più aperto
all’esperienza. E poi chi sono gli altri in fondo? Gente che sa che condividerà
solo poco tempo con te perché dovrebbe essere sincera in tutto, aprirsi e perché
non potrebbe invece inventare una serie di balle, a partire dal nome, il suo
passato, modificare il suo carattere? Ma non è così, o non sembra, tutto diventa
presto chiaro, la natura umana non si snatura, il carattere non cambia, ma si
modifica, si smussa o diventa più spigoloso, ma ha già una sua forma una volta
che si arriva qui e i caratteri più simili stringono rapporti.
In comune abbiamo tutti un viaggio, una lontananza,
un’esperienza eccezionale; di diverso il passato, l’esperienza, le culture e,
quasi sempre, il piano.
C’è chi arriva con l’obiettivo di un lavoro stabile, di
trovare qualcosa di inerente a ciò in cui è specializzato, che non viaggerà
molto, che ha scelto una città come Perth per la ricchezza garantita dalle
miniere del western australia, che cercherà di stabilirsi, mettere radici anche
se non troppo profonde. C’è chi si trova qui per viaggiare, che lavora per
viaggiare e arrivare alla prossima fermata dopo aver consumato buona parte del
capitale e trovare un altro lavoro e ripartire. C’è chi ha un piano lungo anni,
che magari è arrivato qua con la moto dall’inghilterra, ma come lui ce ne sono
pochi, purtroppo. C’è chi arriva con un aggancio – in maggior parte si tratta
di italiani – lavora, guadagna un po’ non si gode molto l’ambiente, sente la
mancanza, non aspetta la scadenza del visto, torna. C’è chi lo chiama anno
sabbatico, che è una definizione che mi piace, che racchiude tutto e niente,
piani di massima, ma soggetti a mutamenti, variabili come dice sia il tempo a
melbourne, forse non è l’idea generale che si ha di anni sabbatico, forse il
luogo comune lo considera come un anno di ritiro fisico spirituale tipo eremita
che alterna meditazione e riposo, ma anno sabbatico può anche essere staccarsi
dalla precedente vita, fare lavori fisici e chiedersi se sia stato giusto
studiare, tutto quel tempo sui libri per fare questi lavori, ma tutto serve,
serve scoprire le proprie possibilità, acquisire consapevolezza del corpo,
soffrire, e poi ancora viaggiare e chiedersi perché non si sia fatto prima,
working holiday, lavoro e vacanza, fare piani di massima molto generali,
aspettando tempi più stabili, pensando con il pensiero periferico a un piano
più grande ma concentrandosi su oggi e domani e, a volte, tra una settimana.